La terra degli ultimi, è il sottotitolo del film. Ed accende i riflettori su una realtà tutta italiana: poco meno di settant’anni fa, in un paese dimenticato (ed oggi abbandonato), Africo, Aspromonte, Calabria. L’idea è quella di raccontare oggi come eravamo nel 1951, cosa accadeva in un sud povero e trascurato, sopratutto dallo Stato. E dare uno spunto sulle ragioni della sostituzione della criminalità organizzata alle istituzioni, fare riflettere sul perché don Totò (il capetto locale, interpretato da Sergio Rubini) fosse più temuto e credibile del Prefetto calato dal nord.
La comunità poverissima di quel villaggio montano è rappresentata con un verismo magistrale, a tratti antropologico. L’occhio dello spettatore si immerge nel fango, nella terra dura, nella ruvidezza delle vesti. Tutto è uniformemente marrone, il regista si sofferma sui piedi sporchi e robusti degli africhesi, non abituati alle scarpe e privi delle minime risorse per acquistarle. In pochi tratteggi, sin dai primi minuti del racconto, si capisce che la assoluta miseria non impedisce ai protagonisti una vita dignitosa ed una umanità e un senso solidale forse perduti.